Il 22 maggio 1978 veniva pubblicata la legge 194 intitolata: “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”, che già nel titolo faceva emergere tutte le sue contraddizioni, evidenti nella fase di discussione e purtroppo confermate nei suoi 40 anni di applicazione.
Una normativa che esprimeva una precisa ratio, la tutela sociale della maternità, sottolineando il fatto che l’aborto era lecito solo in alcuni casi e mai poteva essere considerato “mezzo per il controllo delle nascite” (art. 1); non considerando poi l’aborto come un diritto privato e personale, ma come questione da affrontare sotto il profilo sociale; in sostanza, configurando situazioni di ammissibilità di un atto considerato, in linea di principio, negativamente.
Stante queste premesse, in buona parte condivisibili, quale bilancio possiamo fare oggi, a distanza di 40 anni?
Una lettura superficiale dei dati forniti dal Ministero della Salute sembrerebbe ipotizzare un impatto favorevole della legge sugli aborti volontari: si è passati infatti dai 234.593 aborti del 1982 agli 84.926 del 2016, ultimi dati ufficiali disponibili.
In numeri assoluti una netta riduzione, aspetto del quale non si può che essere felici. A ben guardare però le cose non stanno esattamente così. C’è infatti da sottolineare come negli ultimi decenni sia calato proporzionalmente in Italia anche il numero dei nati; se allora andiamo a valutare, anziché i numeri assoluti, il rapporto di abortività (cioè il numero di aborti ogni mille nati vivi) notiamo purtroppo che tale indicatore è calato solo di qualche unità nel tempo: a testimonianza di una percentuale di aborti volontari che rimane ancora oggi troppo elevata. Non solo: a questi dati vanno poi aggiunti, soprattutto in questi ultimi anni, i microaborti farmacologici causati dalle pillole del “giorno dopo” e dei “cinque giorni dopo”, ormai vendute nelle farmacie a centinaia di migliaia di pezzi ogni anno. Aborti questi che ovviamente non possono essere inseriti nelle relazioni ministeriali, che dipingono quindi una realtà numericamente in difetto, ovviamente molto più drammatica di quanto la maggior parte dei media ci vorrebbe far credere.
Vorrei però riflettere soprattutto sull’impatto culturale e sociale che la legge 194 ha avuto nel nostro Paese, purtroppo nel silenzio assordante di troppe persone, anche nel mondo cattolico. Una legge che nelle intenzioni di chi l’ha proposta (e con la condivisione dei troppi che non l’hanno ostacolata !!!), avrebbe dovuto essere un momento di emancipazione e di libertà per le donne, oltre che uno strumento concreto per eliminare la piaga dell’aborto clandestino.
La realtà ci dice invece oggi che l’aborto clandestino continua ad essere una triste realtà e soprattutto che tante, tantissime mamme (e con esse tutta la società) sono state a più riprese ingannate.
Ingannate perché è stata presentata loro come positiva la situazione più drammatica che una donna possa vivere: l’interruzione in modo improvviso e doloroso del profondo legame con il figlio durante la gravidanza.
Ingannate perché in nome di un presunto femminismo si è puntato tutto sull’autodeterminazione della donna (unica a dovere e potere decidere sull’aborto secondo la legge): una scelta che ha lasciato ogni madre sola nella decisione più difficile da prendere, spesso con un marito assente fisicamente e/o negli atteggiamenti di comprensione ed appoggio.
Ingannate addirittura nel linguaggio, per cercare di nascondere il più possibile la drammaticità della loro scelta. La mamma è diventata “gestante”, il figlio “prodotto del concepimento”, l’aborto “interruzione di gravidanza”. Una vera e propria antilingua studiata per edulcorare una realtà che era e rimane drammatica: per il figlio che non potrà nascere e per la mamma che non lo potrà partorire.
Ma forse e soprattutto ciò che di più nefasto questa legge ha prodotto è stato l’impatto sulla cultura e sulla società. L’averlo legalizzato ha reso l’aborto più accettato dall’opinione pubblica; lo ha trasformato, per usare un’espressione cara a san Giovanni Paolo II, da “delitto a diritto”. Il tutto in un silenzio a tratti assordante, forse e soprattutto tra tanti cattolici che adeguandosi al pensiero dominante hanno contribuito con la loro indifferenza al dilagare di una vera e propria mentalità contro la vita i cui risultati (a cominciare dalla costante decrescita demografica del nostro paese) sono oggi sotto gli occhi di tutti.
I 40 anni della legge sull’aborto ci consegnano però anche una grande speranza fatta di quotidiani gesti di amore ed accoglienza. Sono quelli di tante mamme (ad oggi più di centomila) che hanno saputo dire di no all’aborto, aiutati con costanza, affetto e vicinanza dai volontari e dalle strutture del Movimento per la Vita italiano. Una realtà nata subito dopo l’entrata in vigore della legge grazie alla lungimiranza ed all’impegno dell’on. Carlo Casini e dei suoi primi collaboratori a Firenze ed oggi realtà presente in tutta Italia, anche a Saluzzo con il Centro di Aiuto alla Vita ed una casa di accoglienza. Un’attività di volontariato che non si limita all’accoglienza ed all’aiuto alle mamme in difficoltà per una gravidanza indesiderata, ma che opera anche per riaffermare con forza la cultura della vita con tante iniziative formative. Un impegno quello dei volontari del Movimento per la Vita che cerca di sottolineare con i gesti e le parole quello che già era scritto nella legge all’art. 5: “esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, le possibili soluzioni dei problemi proposti, per aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza”.
Forse da qui si dovrebbe ripartire per ripensare e migliorare una legge (che rimane comunque ingiusta) che a distanza di quarant’anni dalla sua promulgazione continua ad evidenziare tutti i suoi limiti e le sue iniquità.