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Anche in Italia la deriva verso l'eutanasia?

In queste settimane il Parlamento italiano sta discutendo la legge sulle DAT (Dichiarazioni anticipate di trattamento): una accelerazione nel dibattito parlamentare si è determinata sull’onda emotiva suscitato dal caso del DJ Fabo, che ha chiesto ed ottenuto in Svizzera (unico paese al mondo dove è possibile farlo) il suicidio assistito.

Come sempre si usano casi estremi per suscitare consenso nell’opinione pubblica e forzare la mano al legislatore, utilizzando anche strumentalmente una confusione linguistica.

Cosa c’è veramente in ballo in questa legge?

Innanzitutto quella che Papa Francesco chiama la “cultura dello scarto”: ci sarebbero cioè delle vite non più meritevoli di essere vissute e quindi da interrompere prima del loro spegnersi naturale, in base ad una dichiarazione fatta dal malato magari molti anni prima, spesso in situazioni di assoluto benessere. Tra l’altro, quelle che inizialmente erano presentate come dichiarazioni (e quindi non vincolanti per il personale sanitario) si stanno trasformando (ecco qui la manipolazione del linguaggio) in disposizioni, che metteranno tutto il personale degli ospedali nella necessità di ottemperare alla volontà del paziente eliminando di fatto il secolare rapporto medico-paziente che da sempre è alla base di ogni percorso di diagnosi e cura. Tale obbligo potrebbe valere (se non verranno modificate le cose in corso d’opera) anche per le strutture sanitarie private il cui codice etico rifiutasse tali opzioni.

Chissà cosa penserebbe il grande medico greco Ippocrate, fondatore della moderna medicina, che nel suo Giuramento alla base ancora oggi della professione diceva “non somministrerò a nessuno, neppure se richiesto, alcun farmaco mortale, e non prenderò mai un'iniziativa del genere”. Parole che sono state riprese anche nella versione più moderna dello stesso giuramento che impone al medico di giurare di “perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell'uomo e il sollievo della sofferenza, … e di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di un paziente”. Parole riprese anche dal più recente Codice Deontologico dei Medici che afferma con chiarezza che “il Medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte” (Art. 17).

Addirittura si potrà forse accelerare la morte di un paziente privandolo di idratazione ed alimentazione, cioè delle più elementari forme di sollievo per una persona sofferente.

Ci sono naturalmente nella proposta di legge (oltre all’obiezione di coscienza per i singoli operatori sanitari ed al diritto di ogni malato a rifiutare le cure) alcuni punti positivi che vanno sottolineati: il no all’accanimento terapeutico e la diffusione della terapia antalgica, in grado di alleviare con estrema efficacia le sofferenze dei malati: questi però sono atti medici ormai standardizzati che fanno parte di ogni trattamento sanitario, ben presenti nella coscienza di tutti gli operatori e per i quali non è necessaria una nuova normativa. Sono invece utilizzati per distrarre l’attenzione dal vero scopo dei promotori della legge: iniziare un percorso che porti ad introdurre anche in Italia l’eutanasia, cioè la soppressione dell’essere debole, malato, indifeso o senza possibilità di guarigione.

Si chiuderebbe così purtroppo anche nel nostro paese un triste percorso, iniziato circa 40 anni fa con la legge sull’aborto: un percorso che ha trasformato, per usare la parole di San Giovanni Paolo II, i delitti in diritti, influendo anche sulla coscienza di molti e relegando all’ultimo posto tra i diritti umani quello senza il quale tutti gli altri non potrebbero sussistere: il DIRITTO ALLA VITA.

Ecco perché è importante tenere alta l’attenzione sul tema ed operare, per quanto è nelle possibilità di ognuno, perché questa cultura della morte non si impossessi anche del nostro Paese.

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Provvedimento n.229 dell'8 maggio 2014 - pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 126 del 3 giugno 2014.

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